L’OFFENSIVA CONTRO I LAVORATORI TRA
NUOVO MODELLO CONTRATTUALE E REGOLE DI RAPPRESENTANZA
La necessaria risposta operaia e
comunista
di Antonino Marceca
L’obiettivo
padronale di superamento a proprio vantaggio del modello contrattuale
concertativo, stabilito con l’accordo del 23 luglio 1993, dura da oltre un
decennio. E’ appena necessario ricordare che quel modello contrattuale
sopraggiungeva dopo un decennio di sconfitte operaie e soprattutto dopo
l’affondo operato dal governo Amato nel 1992, quando con un solo provvedimento
bloccava tutta la contrattazione, nazionale e aziendale, tagliava le pensioni,
eliminava la scala mobile, apriva alle privatizzazioni.
L’accordo del
23 luglio 1993 certamente non ha salvaguardato il salario, i diritti e le
tutele dei lavoratori, anzi dopo quell’accordo le condizioni contrattuali,
salariali e normative, peggiorarono di continuo, accordo dopo accordo. Secondo
quanto riportato dall’Ocse, per effetto di quell’accordo dal 1988 al 2006 i
salari reali sono diminuiti del 13%. Un fatto che non ha eguali tra i paesi più
industrializzati. Quel modello stabiliva
il principio generale per cui il contratto collettivo nazionale aveva efficacia
erga omnes ed era in generale inderogabile. Le nuove disposizioni contrattuali
e normative sovvertono questa regola.
Il Patto per
l’Italia del 22 luglio 2002 segna la prima tappa dell’offensiva padronale verso
un modello sindacale aziendalista e corporativo, trovando in questo percorso la
piena disponibilità da parte di Cisl e Uil, mentre la gran parte della
burocrazia dirigente della Cgil si attestava su una debole posizione di difesa
del modello concertativo, un piano inclinato e scivoloso dall’esito
inesorabile.
L’offensiva
padronale, come nel caso Fiat, è arrivata a mettere in discussione il diritto
di sciopero che nel nostro Paese è garantito dall’art. 40 della legge
costituzionale come diritto individuale che si esercita in forma collettiva.
L’avvio del nuovo modello contrattuale
La crisi
capitalistica ha impresso una accelerazione ai processi di modifica del sistema
contrattuale, il padronato italiano intende competere nei mercati comprimendo i
salari e i diritti, per questo il contratto collettivo nazionale deve essere
destrutturato.
La prima
breccia in tal senso si era verificata in occasione del rinnovo nel 2006 del
contratto collettivo nazionale dell’industria chimica, sottoscritto anche dalla
Filcem-Cgil.
Il 22 gennaio
2009 Cisl, Uil e Ugl sottoscrivono un accordo quadro di riforma degli assetti
contrattuali, la Cgil non ha condiviso e non ha firmato l’accordo quadro. Il
governo sostiene l’accordo e lo sottoscrive per il settore pubblico.
L’accordo
quadro accentua in senso autoritario lo schema contrattuale previsto
dall’accordo del 23 luglio 1993, limita ancora di più l’autonomia contrattuale
delle categorie e la funzione dei contratti che si riducono a luogo di
applicazione delle intese interconfederali. La durata del contratto nazionale
(economica e normativa) è stabilita in tre anni e per l’incremento salariale si
dovrà fare riferimento ad un indice previsionale di inflazione costituito sulla
base dell’IPCA (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato a livello europeo) che
dovrà essere depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati.
Un sistema di calcolo che va a peggiorare il precedente basato sull’inflazione
programmata. L’accordo inoltre introduce la tregua sindacale durante lo
svolgimento del negoziato e la bilateralità per la gestione dei servizi
integrativi del welfare. Per la prima volta si apre alle deroghe con la
possibilità, in sede territoriale o in azienda, di “modificare, in tutto o in
parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o
normativi dei contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria”.
All’accordo quadro del 22 gennaio 2009 faranno seguito in tanti settori una
serie di accordi unitari, mentre i metalmeccanici subiranno l’accordo separato
del 2009 e il commercio quello del febbraio 2011.
L’impianto del
22 gennaio 2009, ancorché con le deroghe previste, non poteva bastare a
Marchionne che, cosciente della mancanza di una normativa che lo costringesse
al rispetto del contratto collettivo nazionale di categoria, impone e fa votare
con il ricatto e il sostegno dei sindacati complici (Cisl, Uil e Ugl), a
partire dallo stabilimento Fiat di Pomigliano, un suo contratto aziendale.
L’obiettivo non erano solo le deroghe al contratto nazionale, ma soprattutto di
liberarsi dei diritti sindacali e del conflitto in fabbrica, quindi delle RSU e
dei delegati sindacali conflittuali, anche a costo di uscire dalla
Confindustria. Non a caso Angeletti, segretario generale della Uil, con la
lettera del 13 giugno 2011 disdetta l’accordo interconfederale sulle RSU del 20
dicembre 1993.
Lo smantellamento del Contratto nazionale
L’Accordo
interconfederale del 28 giugno 2011 rappresenta il precipitato di un insieme di
fattori: la profonda crisi del governo Berlusconi e lo scollamento dei poteri
forti di Abi, Confindustria, Confcommercio e Vaticano; la necessità avvertita da parte di questi
poteri di un vasto controllo sociale, che solo il pieno coinvolgimento della
Cgil può assicurare, di fronte alle politiche impopolari e anti-operaie che
verranno attuate, possibilmente in un quadro di unità nazionale. Una
prospettiva che converge con la vocazione strategica al patto sociale della
burocrazia dirigente della Cgil. D’altronde l’Accordo interconfederale del 28
giugno 2011 non rappresenta una svolta rispetto all’accordo del 22 gennaio
2009, anzi sotto diversi aspetti accelera lo smantellamento del contratto
collettivo nazionale di lavoro e introduce il modello contrattuale
aziendalistico e corporativo richiesto dal padronato e perseguito dalla Cisl e
dalla Uil.
L’accordo in
premessa accoglie pienamente l’ideologia corporativa aziendale: l’obiettivo è
un sistema di relazioni industriali che crei condizioni di competitività e
produttività, quali presupposti per qualsiasi aumento dell’occupazione e dei
salari. Una concezione che elimina ogni autonomia sindacale dal padronato e dal
governo.
Sulla contrattazione
nazionale, l’accordo si limita a stabilire le regole di rappresentatività delle
delegazioni sindacali di categoria ammesse a trattare, mentre nulla viene detto
sulle regole e sui diritti dei lavoratori. L’accordo si dilunga sulla
contrattazione collettiva aziendale che si esercita per le materie delegate dal
contratto nazionale di categoria o dalla legge. Le contrattazioni aziendali
sono legittimate a derogare dalle norme del contratto nazionale, mediante
“specifiche intese modificative” relative
alla “prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro” o per le
materie definiti dalla legge.
I contratti
aziendali, per le parti economiche e normative, se approvate dalla maggioranza
delle RSU sono efficaci per tutti i lavoratori e vincolano tutte le
organizzazioni sindacali firmatari dell’accordo interconfederale. Inoltre per
garantire l’esigibilità dell’accordo vengono previste tregue sindacali
vincolanti, ovvero la limitazione del diritto di sciopero, e sanzionabili anche nel caso di accordi separati.
Il voto dei
lavoratori sugli accordi è limitato alle aziende in cui operano le RSA, ma per
essere esigibile dovrà essere richiesto entro 10 giorni da una delle
organizzazioni sindacali firmatari o dal 30% dei lavoratori dell’azienda. In
tutti gli altri casi non è previsto il voto dei lavoratori.
C’è appena
bisogno di precisare che questo accordo riduce i diritti democratici dei
lavoratori ed introduce un sistema maggioritario aziendalistico e corporativo
che esclude l’agibilità dell’organizzazione dissenziente. L’accordo del 28
giugno 2011 verrà ratificato dalla Cgil il 21 settembre 2011, senza un reale
mandato degli iscritti.
L’efficacia e
gli effetti del contratto aziendale prodotto dall’accordo interconfederale era
comunque aggredibile, senza la copertura di una legge, dal ricorso alla
contestazione giudiziaria di singoli o di sindacati dissenzienti. La manovra di
agosto del governo intervenendo sulla materia da un lato risponde a questa
esigenza padronale e dall’altro tenta di introdurre un cuneo nel patto sociale
predisposto dall’accordo stesso.
I contratti di prossimità
Era appena
iniziata la discussione nelle fabbriche sugli effetti e sull’impatto
dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, quando il 4 agosto 2011 viene
firmato il patto sociale tra banche, imprese e sindacati. Un patto che tra
l’altro chiede al governo un intervento sul mercato del lavoro per modernizzare
le relazioni sindacali.
A seguire, la
lettera del 5 agosto 2011 firmata a nome della BCE da Draghi e Trichet. Questi
dopo aver elogiato l’accordo del 28 giugno 2011chiedono, tra l’altro, al
governo di “riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale
collettiva, permettendo accordi al livello di impresa in modo da ritagliare i
salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e
rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di
negoziazione” e una “accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e
il licenziamento” attraverso l'introduzione di nuove flessibilità, sopratutto
in uscita.
Il governo
risponde prontamente a questa sollecitazione predisponendo una manovra
economica aggiuntiva il 13 agosto. Il decreto verrà convertito nella legge 14
settembre 2011, n. 148. L’intervento
legislativo con l’art. 8 risponde alle molteplici richieste di Marcegaglia,
Marchionne e BCE, richiama l’accordo del 28 giugno 2011 e stabilisce che i contratti collettivi aziendali o
territoriali, sottoscritti da “associazioni più rappresentative sul piano
nazionale o territoriale, ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti
in azienda”, possono, in diversi ambiti, avere efficacia derogativa generale
della legge e del CCNL. Le materie interessate comprendono gli impianti
audiovisivi e la privacy, le norme in materia di inquadramento, mansioni, orari
di lavoro, contratti flessibili, modalità di assunzione e di disciplina del
rapporto di lavoro e, a parte alcune situazioni specifiche, il licenziamento.
In breve è lo Statuto dei Lavoratori e il diritto del lavoro a subire una forte
destrutturazione.
La norma non
chiarifica l’ambito territoriale (distrettuale, comunale, provinciale), né le
modalità di accertamento della rappresentatività delle organizzazioni sindacali
territoriali, ma è evidente che apre ad una molteplicità di condizioni
contrattuali aziendali e territoriali sottoscritti da sindacati diretta
emanazione di forze padronali. L’obiettivo è l’esasperazione della concorrenza
tra lavoratori per renderli atomizzati, frantumati, disarmati e precari di
fronte al padronato. Il complesso di accordi e norme configura una profonda
modifica del sistema contrattuale in senso pienamente aziendalistico e
corporativo. Il modello Marchionne, un sistema basato sulla minaccia, viene ad
essere istituzionalizzato.
I meccanismi della rappresentanza
La questione
della rappresentanza e della rappresentatività nel nuovo quadro normativo e
contrattuale assume un rilievo particolare, segnando anche in questo campo un
forte passo indietro rispetto agli impegni alla generalizzazione delle RSU.
La
rappresentanza dei lavoratori è regolata differentemente nel settore privato
rispetto al settore pubblico.
Nel settore
privato la rappresentanza sindacale aziendale è regolata dall’art. 19 della
Legge 300/70 (Statuto dei Lavoratori), come modificato dal referendum del 1995,
che stabilisce che il diritto dei lavoratori di costituire rappresentanze
sindacali aziendali si esercita nell’ambito dei sindacati firmatari di
contratti collettivi applicati nei luoghi di lavoro. Si tratta delle RSA, strutture
nominate con delega dalle organizzazioni sindacali e non elette dai lavoratori.
La possibilità
di costituire rappresentanze sindacali unitarie (RSU) in aziende con oltre 15
dipendenti è regolamentato dall'accordo interconfederale del 20 dicembre 1993
tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil. Le RSU nel settore privato sono
strutture, seppur imperfette, di rappresentanza elettive prevedendo per la loro
costituzione l'elezione a suffragio universale e a scrutinio segreto tra le
liste concorrenti per due terzi dei seggi, mentre il terzo rimanente è
assegnato in proporzione ai voti ricevuti dalle liste presentate dalle
associazioni firmatarie il contratto collettivo nazionale applicato nell'unità
produttiva. Secondo quanto disposto dall'accordo del 28 giugno 2011, le RSA e
le RSU restano in carica tre anni, al termine dei quali decadono.
Nel settore
pubblico l'introduzione delle RSU è avvenuta con il Decreto
Legislativo 4 novembre 1997, n° 396 e regolamentate dall’Accordo collettivo
quadro del 7 agosto 1998 tra ARAN e CGIL, CISL, UIL, CONFSAL, CISAL, RDB-CUB,
UGL. Nella pubblica amministrazione e nella scuola tutta la RSU è elettiva,
senza quote riservate.
Un
quadro quindi differenziato tra i due comparti, pubblico e privato, del mondo
del lavoro che si ripercuote nella misura della rappresentatività.
Il calcolo della rappresentatività
Nel
pubblico impiego, il calcolo della rappresentatività è determinato su base
legislativa: l'Aran ammette alla contrattazione collettiva nazionale le
organizzazioni sindacali che abbiano nel comparto o nell'area una
rappresentatività non inferiore al 5%, considerando al tal fine la media tra il
dato associativo ed il dato elettorale. Il dato associativo è espresso dalla
percentuale delle deleghe rilasciate nell'ambito considerato. Il dato
elettorale è espresso dalla percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle
rappresentanze sindacali unitarie. Le organizzazioni sindacali che aderiscono
all'ipotesi di accordo devono raggiungere una rappresentatività di almeno il
51%, secondo le modalità stabilite con sentenza del 3 novembre 2008 del
Consiglio di Stato.
Nel
settore privato la questione del calcolo della rappresentatività è quantomeno
problematica, a seguito dell'accordo del 28 giugno 2011 la certificazione della
rappresentatività per la contrattazione collettiva nazionale di categoria
verrebbe stabilita mediante i dati associativi riferite alle deleghe relative
ai contributi sindacali conferiti dai lavoratori, certificate dall'INPS e
trasmesse al CNEL. Il CNEL compara i dati relative alle deleghe con i risultati
nella elezione delle RSU trasmessi dai sindacati. La legittimità a negoziare è
data per ciascuna organizzazione sindacale dal raggiungimento del 5% del totale
dei lavoratori della categoria cui si applica il contratto collettivo nazionale
di lavoro.
Il
ministro Sacconi in una nota del 5 ottobre 2011, dopo aver specificato che la
legge garantiva la capacità degli accordi aziendali in tutti i settori, afferma
che “l'accordo interconfederale ha definito le modalità con cui si determinano
le maggioranze sindacali e la rappresentatività delle singole organizzazioni
dei lavoratori”.
A
parte il fatto che ne la norma ne il ministro ha definito i confini
territoriali di calcolo della rappresentatività e di applicazione dei contratti
di prossimità, va appena rilevato che risultano esclusi dal conteggio i
lavoratori delle imprese con meno di 15 dipendenti e i lavoratori precari che,
per effetto della ampia flessibilità in entrata, costituiscono la maggior parte
delle nuove assunzioni.
Il
quadro europeo
La riduzione dei salari, dei diritti e delle tutele sindacali
attraverso l’introduzione di un modello contrattuale aziendalistico è al centro
del dibattito nell'insieme dell'Unione europea.
La contrattazione collettiva settoriale e intersettoriale che ha
caratterizzato il modello contrattuale
in diversi paesi europei come strumento
di difesa del salario e delle condizioni di lavoro, di contrasto della concorrenza
tra lavoratori e di unificazione della classe lavoratrice di fronte al
padronato, pubblico e privato, è messa fortemente in discussione. Va ricordato
che per quanto concerne i livelli salariali, mentre in alcuni paesi (Belgio,
Francia, Spagna, Grecia, Irlanda) esiste un salario minimo di legge, in altri
(Italia, Austria, Germania) il salario minimo non è stabilito per legge ma dai
contratti collettivi con conseguenti differenziazioni sostanziali tra le
diverse categorie.
Nell’ultimo decennio, ma soprattutto con la crisi capitalistica le
organizzazioni padronali e i governi attraverso accordi quadro e interventi
legislativi hanno operato per rafforzare la contrattazione aziendale,
attribuendole maggiori poteri di deroga sull’orario di lavoro, il salario e in
generale le condizioni lavorative. In particolare il modello contrattuale
aziendalistico è stato introdotto in Spagna e in Francia attraverso interventi
legislativi, in Germania il calo della copertura dei contratti collettivi di
settore e lo spostamento a livello aziendale di una parte sempre più ampia
della prerogativa di contrattazione ha reso inutile modifiche di legge.
Negli ultimi anni drastici tagli dei diritti e delle tutele
sindacali si sono registrati in
Ungheria, Romania, Slovacchia, Paesi Baltici e Repubblica Ceca.
Nell'ultimo periodo la troika (Commissione europea, BCE, FMI) è
intervenuta per chiedere ai governi, soprattutto di Grecia, Irlanda,
Portogallo, Spagna e Italia, interventi normativi per la limitazione dei
diritti sindacali e della contrattazione collettiva nazionale e di settore,
spostando la contrattazione a livello aziendale quale strumento per ridurre i
salari, i diritti e le tutele e per questa via incrementare la produttività e
la competitività delle aziende.
L’opposizione sindacale a queste politiche è stata diversificata
nei differenti paesi, come dimostra anche il caso italiano, mentre è mancata
una vera mobilitazione a livello europeo.
La
necessità di una risposta di classe
E'
del tutto evidente che in questa fase di acuta crisi capitalistica, il capitale
per recuperare margini di profitto ha bisogno di sottoporre la classe
lavoratrice ad una pesante condizione di schiavitù salariata. Il combinato e
l'intreccio di accordi interconfederali e atti legislativi è servito per questo
scopo. La Camusso ha spiegato l'utilità dell'accordo del 28 giugno 2011 in nome del contesto
generale. A metà agosto la norma che contiene l'art. 8 riceveva il sostegno di
Confindustria, Cisl e Uil. Il padronato ha ottenuto l'accordo e la legge, le
loro aziende si stanno attrezzando e trovano nei territori e nelle fabbriche la
collaborazione di sindacati complici e delegati venduti, ma anche la resistenza
dei lavoratori.
Tutti
i governi borghesi, siano essi di destra, centrodestra, centrosinistra o di
unità nazionale, non hanno nulla da dare ma solo da togliere. Il prossimo
governo Monti suonerà lo stesso spartito, magari con toni diversi rispetto al
governo Berlusconi.
Non
c'è ombra di dubbio sul fatto che il centrosinistra e la burocrazia dirigente
della Cgil si faranno carico dell'applicazione diligente di quanto e stato
sollecitato dalla troika per garantire il pagamento degli interessi sul debito
pubblico alle banche.
Il
malessere sociale, la povertà, la precarietà, i licenziamenti, la
disoccupazione, il ricatto nei posti di lavoro si diffondono, la speranza in un
futuro degno nelle giovani generazioni è spezzata. Queste fascine possono
incendiarsi in una rivolta sociale di massa, cambiando i rapporti di forza tra
le classi.
Le
conquiste parziali perdute (contratti nazionali di settore, diritto di voto
sulle piattaforme ed accordi, salario, orario, diritti, tutele) nell’intero
continente europeo, possono essere riconquistate solo se si mette in campo la
forza organizzata, concentrata, unitaria dei lavoratori e delle masse popolari,
nella prospettiva ineludibile del governo dei lavoratori nel quadro di una
federazione socialista europea. Nel Paese la necessità e l'urgenza di mettere
in campo un fronte unico di sinistra politica, sindacale e di movimento per
costruire una vertenza generale ed unificante contro il governo e il padronato,
deve essere coniugato con il rafforzamento del Partito Comunista dei Lavoratori
e della Quarta Internazionale.
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