L'efficientamento è scaricato sui lavoratori fatti passare per lavativi, egoisti a difesa di corporazioni, nello stesso momento in cui si sottraggono risorse, diritti, democrazia alle persone. Ora non le sembra che tutto questo meriti un ripensamento delle forme di lotta?
Spero solo di non essere frainteso e non vorrei sembrarle invadente.
La truffa dell’accordo di
produttività
MARTEDÌ, 27 NOVEMBRE,
2012
Bisogna spiegare bene la truffa (per i lavoratori) dell’accordo sulla produttività poichè altrimenti, in questa situazione di incultura e
regressione politica e sindacale dilagante, può sembrare giusta e moderna l’idea che “chi lavora di più e
contribuisce di più allo
sviluppo della propria azienda, guadagna anche di più”. Cosa
che, detta così, non fa una piega, ma che inquadrata, come si dice, nel
contesto generale, tradisce i caratteri di un grande inganno. Dirigenti della
CGIL, che (per ora e speriamo anche in seguito) non ha firmato l’accordo e dei partiti di sinistra hanno replicato con dichiarazioni
giustissime, ma sintetiche (o così sono state presentate),
che, senza un ulteriore sviluppo dei temi che propongono, potrebbero risultare
inefficaci a svelare il nuovo pesante regresso che viene imposto alla civiltà del lavoro e alla condizione dei lavoratori.
Sono chiamate in causa questioni di principio e, per così dire, le loro applicazioni pratiche. Per quanto riguarda le prime, l’accordo sulla produttività costituisce una
nuova pietra tombale della grande stagione contrattuale che, a partire dalla
fine degli anni’60, ha segnato in
Italia un generale avanzamento della condizione e dei diritti dei lavoratori
che fu (bisogna sempre ricordarlo) motore dei più alti indici di
sviluppo dell’economia mai
registrati. Il principio base della politica sindacale era a “uguale lavoro, uguale salario”, con l’idea che unificare i lavoratori di ogni categoria in un fronte coeso e
compatto potesse costituire la massa critica atta a contrastare lo strapotere
padronale e a garantire, collettivamente e per ciascuno, miglioramenti
salariali e normativi altrimenti irraggiungibili.
Quella idea era profondamente giusta. Non è un caso che oggi è essa ad essere rovesciata. Alla contrattazione collettiva e nazionale si
sostituisce quella aziendale e individuale e questo (che è l’obiettivo del
governo e degli imprenditori) indebolirà la capacità contrattuale dei lavoratori, sia in gruppo che singoli. Essi saranno più deboli e, di conseguenza, la loro condizione, che dipende dai rapporti di
forza, non dalle regalie del padrone o dalle fasi di sviluppo, sempre o spesso
contingenti, di una impresa, sarà peggiore. Del
resto, in realtà, la possibilità di accordi
aziendali per aumenti salariali collegati ad aumenti di produttività sono già consentiti dall’ordine delle cose
corrente e largamente praticati. La novità, negativa purtroppo, di questo ultimo accordo
consiste nel fatto che fino ad oggi la contrattazione aziendale era aggiuntiva
e “migliorativa” di quella nazionale; ora diventa, per così dire “sostitutiva” di
quest’ultima che, alla fine, attraverso i vari
provvedimenti assunti in sede legislativa e contrattuale, viene in realtà negata nella sua stessa possibilità di esistenza . Il contratto nazionale, infatti, sarà (questo c’è scritto nel testo dell’intesa non
firmata dalla CGIL) condizionato e subordinato all’andamento generale dell’economia e del
settore di competenza (rispuntano i “mercati”!) e da altre variabili delle quali il lavoratore è puro soggetto passivo. Sarà, in sostanza,
bloccato. I margini di recupero andranno conseguentemente cercati nella
contrattazione aziendale e negli accordi di produttività. E qui sta la truffa! Perché? Perchè gli accordi di produttività (anche dove ci
saranno margini per farli) non saranno mai compensativi (almeno per la grande
maggioranza dei lavoratori) delle perdite di quello “nazionale”.
Tra l’altro – paradosso del caso, e considerazione di primaria importanza -, si potrebbe
ben dire che i lavoratori, i loro aumenti, se li pagheranno da soli! Gli
accordi aziendali saranno infatti incentivati con sgravi fiscali (solo su
quella parte “di produttività” del salario), finanziati dallo Stato con la fiscalità generale: fate i conti di chi paga le tasse in questo Paese (in realtà solo i modelli 101) e vi renderete conto dell’impianto truffaldino che è alla base di
questa “innovativa” intesa.
L’accordo sulla produttività scarica interamente sul lavoro umano e quindi sui dipendenti, la
responsabilità della competitività, assolvendo completamente l’impresa e i pubblici poteri. E’ una cosa ignobile poiché in realtà, nei tempi moderni e per un Paese come l’Italia, le ragioni della bassa competitività dipendono molto di più da altre cause (inefficienze generali del sistema e dell’impresa ecc.) che dallo sfruttamento del lavoro umano.
Esso, in Italia, già oggi è, in generale, ad un livello di grande intensità: ritmi orari, turnazioni sono al limite, testimoniate
dalle cifre, spaventose e inaccettabili, anche se “oscurate”, di morti, infortuni, malattie professionali. L’idea, infame, che si “lavora poco e i dipendenti vanno spremuti di più” esenta l’impresa dai suoi obblighi di migliorare, innovare, qualificare i processi e
i prodotti e quindi, oltre che ingiusta e non veritiera, è anche inutile dal punto di vista economico e
competitivo.
E, a proposito della innovatività e della coerenza
europea di questo accordo, è risibile pensare
che esso propone di introdurre la “cogestione” (cioè la partecipazione dei dipendenti al capitale dell’impresa) in Italia, nel momento in cui questa esperienza, di fronte al suo
fallimento, viene derubricata in quegli stessi Paesi, a guida
socialdemocratica, in cui fu introdotta per prima.
Ma in realtà questo accordo è assai poco mitteleuropeo e molto oscurantista. La sua cifra finale, finale
in tutti i sensi, come collocazione nel testo e cultura generale, è data purtroppo dalla parte sulla installazione delle telecamere per
sorvegliare il lavoro dei dipendenti. La fabbrica o l’ufficio, come una galera! Complimenti a chi, tra i rappresentanti dei
lavoratori, l’ha sottoscritto!
Ricordo, negli anni ‘70, un bel
comizio di Rinaldo Scheda (dirigente di spicco della CGIL) in Piazza Tacito a
Terni davanti agli operai delle Acciaierie. Col suo linguaggio figurato rievocò l’ombra degli gli
anni ’50, quando “l’operaio entrato in fabbrica doveva lasciare nell’armadietto insieme al cappotto anche la sua coscienza” e ammonì sul fatto che
bisognasse impedire di tornarci. A quella generazione della sinistra l’impresa riuscì e si aprì una memorabile fase di sviluppo. Oggi abbiamo di fronte, in condizioni
forse più difficili, lo
stesso compito.
Leonardo
Caponi
VUOI DIRE LA TUA ?
VUOI LASCIARE UN COMMENTO ?
SCRIVI ALLA REDAZIONE
Il mio plauso al sig. Gragnaniello. Alfredo Ciaramella
RispondiElimina