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15 marzo 2013

LE SBARRE INVISIBILI. DI CIRO TARANTINO - 3° CAPITOLO






All’età di otto anni avevo una cagnetta non vedente. La prima volta che la vidi, cercai di farla avvicinare a me senza riuscirci, poiché era molto sospettosa e diffidente, poi man mano incominciò a fidarsi di me, fino al punto che per lei divenne indispensabile starmi vicino. Quando la chiamavo con un fischio particolare, correva orientandosi con l’udito verso il suono del fischio. Poiché non poteva vedermi, iniziava ad annusare tutti i miei amici, fin quando non sentiva il mio odore, dopo di che iniziava a scodinzolare la coda, a leccarmi ed a saltarmi addosso. Un giorno, questa cagnetta partorì quattro adorabili cuccioli; per proteggerli dal freddo li portai nel garage di casa mia. Essi crescevano felici, sotto il calore della madre. Due cuccioli erano neri con delle macchioline bianche sotto il collo e sulle zampette, praticamente erano identici alla madre; gli altri due invece erano bianchi, con delle chiazze nere sul capo, come il padre. Man mano che crescevano, cominciarono a delinearsi anche i loro caratteri, lo si poteva notare mentre giocavano tra loro. Quelli simili al padre erano più irruenti degli altri due, mentre quelli simili alla madre erano docili e mansueti. Era uno spettacolo ammirarli quando facevano a gara a chi trovasse per primo le mammelle più piene; a volte, quelli più prepotenti, con colpi di zampe riuscivano a spostare gli altri per impadronirsi del succulento capezzolo. Succhiavano in modo avido, per far uscire più latte, e si aiutavano con dei colpi di zampa alla base della mammella. Dopo aver succhiato, esausti e sazi si addormentavano. La madre, per far loro espletare i bisogni fisiologici, li leccava continuamente sugli organi genitali, fino a quando riusciva nell’impresa.
 Quando avevano circa un mese di vita, gli accalappiacani del Comune di Napoli, si presentarono nel rifugio che avevo creato per loro, per portare via, al canile, l’intera famiglia; ma io ero disposto a tutto per impedirlo.  Presi una grossa pietra e mi piazzai davanti al loro furgone, minacciando di scagliarla sul parabrezza. Vista la situazione, uno dei due scese dal furgone per corrermi dietro, così da costringermi a spostarmi per fuggire; ma appena quell’uomo smetteva di inseguirmi, io ero di nuovo davanti al furgone, per impedirne la partenza. Questa scena si ripeté parecchie volte, finché non chiamarono mio padre per farlo rientrare anticipatamente dal lavoro… Quando arrivò, mi corse dietro, dando la possibilità finalmente al furgone di ripartire. Tornato a casa, ero arrabbiatissimo e furioso, non sapevo chi del mio palazzo avesse chiamato l’accalappiacani; così, per essere sicuro di fargliela pagare, all’autore di quella cattiveria, presi la mia fionda e, iniziando dal quarto piano, ruppi i vetri delle finastre a tutti gli otto appartamenti del mio palazzo. In seguito a questa monelleria, mio padre fu costretto a risarcire i danni a tutti.

 Da piccolo, quando desideravo qualcosa, che si trattasse di monete, giocattoli, scarpe nuove  ecc.. e mi veniva negata, diventavo una furia, e per ritorsione prendevo delle pietre e le scagliavo con violenza contro i vetri delle finestre di casa mia; ciò mi riusciva con grande facilità, poiché abitavo al piano terra. Come avrete ben capito ero uno scugnizzo in piena regola.  

 A causa di questo mio comportamento, mio padre, almeno una volta a settimana, era costretto, suo malgrado, ad andare in vetreria per comprare vetri nuovi. Così, mia madre ogni qualvolta mi vedeva arrabbiato, capiva che doveva abbassare immediatamente le persiane a protezione dei vetri. Poiché non potevo più rompere i vetri, mi limitavo a riempire il balcone di sacchi di spazzatura, prelevati dal cassonetto. Era il mio nuovo sistema per costringere i miei ad esaudire le mie richieste.  Un’altra marachella che facevo spesso era quella di buttare nella spazzatura tutte le scorte di aglio e cipolle. Mi comportavo in tal modo perché mia madre faceva, di questi ortaggi, un uso sfrenato nelle pietanze, e il loro solo odore mi nauseava, figurarsi quando un pezzetto mi finiva in bocca.  
Di fronte casa mia c’era una famiglia di contadini, composta da un’anziana signora, suo marito e i loro due figli. La contadina era una vecchietta adorabile, dolce e generosa. Coltivava insieme alla sua famiglia un piccolo appezzamento di terreno. Spesso capitava di trovarmi con lei vicino al fuoco,e di ascoltare i suoi racconti,che si perdevano nel tempo. Se n’erano accumulati tanti fra i suoi bianchi capelli,nonostante non si era mossa da lì da molti decenni. Mi raccontava cose bellissime,accadute nella sua giovinezza,e mentre lo faceva,nelle sue parole mi pareva di cogliere una sorta di malinconia. Ricordo questa anziana donna seduta accanto al tavolo nel suo pagliaio mentre preparava la merenda ai suoi figli, i quali erano intenti a lavorare nei campi,con la solennità di un rito. Dappertutto sprizzava la gioia:la fatica pareva ignorata in quell’attività che era come un inno di riconoscenza alla terra,feconda e generosa.  Il sole dall’alto sembrava baciare con i suoi raggi luminosi quei forti contadini, Il riflesso della fiamma rossastra del suo piccolo e vecchio fornellino a gas le splendeva sul viso e solo la chioma grigia non si illuminava alle calde carezze del fuoco. Con le sue mani sapienti metteva in mezzo alle pagnotte di pane bianco delle fettine di mortadella. Fuori al pagliaio, i rami delle piante rampicanti sbattevano ora delicatamente, ora con forza, contro la piccola finestra. Il cielo, di cui si poteva vedere solo una piccola parte, era pesante e grigio; infatti dopo un po’ iniziò una leggera pioggia. Ella prese una tovaglia da un vecchio mobile e preparò la tavola, lanciando di tanto in tanto una sguardo verso la finestra. Ad un tratto udì un rumore di passi e capì che erano arrivati i suoi figli. Appena si spalancò la porta, ella si accorse che era tornato solo il figlio maggiore, e un po’ delusa pretese da questo ultimo che andasse a chiamare l’altro figlio. Anche se era un uomo di una certa età, aveva un gran rispetto della madre, quindi obbedì e si avviò di nuovo verso i campi. Di queste vicende ero un felice spettatore, con loro riuscivo a vedere e capire solo cose genuine.
 Nonostante ammirassi questa donna, in un'occasione mi comportai molto male nei suoi confronti. Un giorno, mia madre era furiosa perché gli avevo rotto due vetri della finestra,per cui   mi rincorreva per strada con l’intenzione di picchiarmi e, non riuscendo a raggiungermi, chiese aiuto a questa vecchietta, la quale con una scusa mi fece avvicinare a sé, mi bloccò e mi consegnò a mia madre, che sfogò tutta la sua rabbia su di me. Qualche ora più tardi, incontrai sulla mia strada la stessa vecchietta, ed essendo ancora adirato con lei, le scagliai contro una grossa pietra colpendola ad una gamba e procurandole un grosso ematoma. Dopo qualche settimana, dimenticata questa brutta storia, mentre ero intento ad aprire un tombino in strada, ci finii con le mani sotto, restando intrappolato in quella posizione per quasi mezz’ora. Nel frattempo le mie mani diventavano sempre più rosse a causa del sangue che fuoriusciva dalla ferita. Alzando gli occhi per cercare aiuto, il mio sguardo si incrociò con quello della vecchietta, la quale portava sulla gamba ancora i segni della ferita che le avevo procurato. Appena si rese conto della mia situazione di pericolo non esitò nemmeno per un istante ad intervenire in mio aiuto. Con la forza di entrambi riuscimmo ad alzare il tombino quel poco che fu sufficiente per liberare le dita dal terribile peso. Non andai via subito, volevo ringraziare quella donna, ma non ebbi il coraggio di farlo. Il cuore mi batteva forte, sentivo la gola stretta in una morsa. Non so quanto tempo rimasi immobile, ma quando finalmente mi sciolsi, mi accorsi che le mie guance erano rigate da copiose lacrime che non riuscii a trattenere. Avrei tanto voluto abbracciare quella donna, ma scappai via. Fu una grande lezione di vita della quale presi atto e non mi sarei mai aspettato che mi venisse impartita da una signora in età così avanzata.
L’occasione per farmi perdonare non tardò a presentarsi: la settimana dopo il suo intervento, la vidi in lontananza mentre portava un contenitore di vino molto grosso e, vedendola barcollare, mi feci coraggio e le offrii il mio aiuto. Ella lo accettò, semplicemente, con un lieve movimento della testa e con un piccolo sorriso. Ero molto felice e mi accorsi che lo era anche lei. Da allora la mia presenza nel suo piccolo pezzo di terreno aumentò notevolmente,al punto tale che quando mia madre mi cercava, sapeva sempre dove trovarmi.
 A volte, dalla mia finestra, ammiravo questa famiglia intenta già al mattino presto al lavoro nei campi, davanti al carro trainato dai cavalli vi era il figlio maggiore, dietro il minore e ai due lati vi erano il padre e la madre che davano consigli ai figli affinché svolgessero un buon lavoro. Tutti insieme procedevano lenti come se seguissero un passo cadenzato. Quando tagliavano il fieno, i campi diventavano di un verde dorato e, ai confini di questi ultimi, correva una siepe che proiettava un ombra scura nella calda luce del campo. Quando aiutavamo i contadini, durante la pausa pranzo,eravamo   tutti  all’ombra di un grande albero di pioppo,i suoi rami arrivavano a lambire le nostre teste,facendoci oltre che ombra,anche da ventaglio. Ci sedevamo  intorno ad un grande tavolo rudimentale, solcato nel mezzo da vecchie striature del legno.  Mentre pranzavamo, guardavamo dal nostro fresco ed ombroso rifugio i campi infuocati dal sole. Di fronte a noi c’era il cavallo intento a mangiare la biada, tutto il resto era immobile e, di tanto in tanto il cavallo, mangiando, faceva tintinnare un piccolo campanello che aveva al collo. Finito di pranzare,noi bambini eravamo i impazienti di rimetterci a lavoro. Al termine del lavoro i contadini, nella cornice del tramonto, salivano sulle loro vecchie biciclette ed andavano via. Il figlio maggiore dei contadini era un ottimo cacciatore, e quando il lavoro finiva prima del previsto si divertiva a sparare ai topi ed ai ratti che infestavano i suoi campi. Tutti questi elementi si riflettevano in me suscitando sensazioni di pace e serenità.
 I pezzi di terra non coltivati erano terreno fertile per  papaveri rossi e margherite che insieme formavano un connubio di rara bellezza. Non sempre i contadini erano soddisfatti del nostro lavoro,poiché a volte dopo aver raccolto le patate,invece di depositarle nelle apposite casse,facevamo a gara chi le lanciava più lontano. 


Continua sabato e domenica prossimi....

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